di Pierluigi Parisi  

Héritage di Francesca Mele è visione dello spirito.

Nei due sensi, soggettivo e oggettivo del genitivo: è nel medesimo sia la visione che lo spirito permette, per toccare l’apogeo spirituale della materia e dell’uomo, sia il vedere lo spirito come segno e presenza. L’opera è un trittico, scandisce le tappe che chi dipinge come chi guarda ha attraversato fino in fondo. Parole queste (attraversare, fondo) che torneranno spesso nella mia meditazione. Le tappe si danno di un percorso il quale è scandito da passaggi. Ripercorriamole insieme.

Tela sinistra

Iniziando la lettura dell’opera da sinistra, come si insegna a fare ai bambini della nostra cultura, ci si presenta l’interno di una stanza. Un ambiente domestico, quasi certamente addomesticato. Un’abitazione, cifra semantica dell’abitudine. Quindi un luogo ( non solo un mero spazio) di vita vissuta, luogo abitabile, addomesticato. Due poltrone indicano sia l’oggettualità della cosa sia il luogo dello stare. Colpisce subito, infatti, la presenza di cose, di oggetti descritti dalla mano ferma di chi non dubita della presenza delle cose viste. Inoltre, su una poltrona, si sta, seduti. La radicalità della stasi della poltrona è evidente. Luogo di radici, luogo di appartenenza. L’abitazione, la domus.

La luminosità dell’ambiente non mette in imbarazzo l’occhio di chi guarda. Tutto si dà alla vista, naturalmente. Tutto è evidente come evidente sembra la realtà a noi concreta ( con-creta: cresciuta insieme a noi). Il primo passo nella conoscenza si dà attraverso la presenza degli oggetti, la presenza che l’oggetto afferma e-videntemente al cospetto di chi guarda.  Tutto ciò che è e-vidente si spiega da sé; appare oggetto stabile ai nostri sensi. Stabile come lo stare della poltrona, come lo stare sulla poltrona. In secondo piano si offre un’apertura, una doppia apertura sovrapposta: una porta e una finestra. Guardano in direzioni diverse. La porta è aperta, lascia libero il passo in un ambiente, domestico come questo. Semplice passaggio nella stanza accanto. Vicinanza, orizzontalità; eppure stanza da scoprire, la sua grandezza e la sua atmosfera non si danno alla vista. Porta illuminata che accoglie ospitalmente il nostro sguardo, si lascia attraversare con la disinvoltura dell’addomesticato. La porta è solo varco per un vano, vicino per l’esploraratore, lontano per l’esperiente. Non si sa ancora nulla della stanza al di là, lo sguardo non può abbracciarla. Ne esperisco solo l’accogliente apertura. Anche la finestra è aperta, ma offre direttamente uno spazio verticale, lontano per l’osservatore, vicino per l’esperiente. Nulla è nascosto, la mia vista già tocca la luna. L’orizzonte è oltreterraneo, eppure è così presente, non è solo accennato. È apertura alta, profonda e liberante le geometrie e le misure dell’umano. Porta e finestra accolgono ora il nostro passaggio, si se-ducono, portandoci a sé. Poche volte si pensa alla chiarità di questa tavolozza come cifra di una parentela etimologica perduta nella nostra lingua: dies-deus; è la chiara luminosità della luce che permette di essere al contempo guardati e salvati, salvaguardati. Ci è permesso così compiere il passaggio.

Tela centrale 

La festa, la felicità passa dall’esplosione dei colori. La vivissima impressione della ricca tavolozza policroma salta subito all’occhio. I colori sono qui emozioni, sentimenti, stati d’animo, bagaglio inesauribile della profondità e della proteiformità della sensibilità umana. La stanza attorno alla bambina si colora di un vortice di oggetti. La nostra e la sua vista sono il caleidoscopio che sente la ricchezza della persona. Gli oggetti, cifre e segni del mondo più intimo, abbracciano, avvolgono e scompigliano la bellezza di un sorriso. Tutto ruota attorno a qual volto gioioso, unica acme iperrealista dell’intera opera. La centralità della persona, punto di snodo e nodo gordiano allo stesso tempo, è tangibile. L’opera si sviluppa e si avviluppa da, con, insieme ad essa. L’intensità così forte del boato cromatico diventa suono: ora si può ascoltare il battito delle mani così come il riso gustoso. La geometrica composizione delle figure è accolta fra due diagonali simmetriche alla linea mediana:  a sinistra è tracciata dalla luce, a destra dalla direzione dello sguardo della bambina. Così, gli oggetti-cifra della persona sono accolti da un abbraccio metaforico divino-umano. Sguardo e luce illuminante. Le figure comprese nell’esuberante vortice si stagliano a formare una colonna, quasi retta dalle spalle. Un cavalluccio a dondolo, una sedia, una bicicletta, una pentola, un mobile, un cesto, una cornice, maschere. Oggetti quotidiani, oggetti dell’essenziale: l’alimento, lo studio, il gioco, lo spazio vuoto della cornice per le tele, le rappresentazioni e i ruoli della persona, il fiabesco, l’onirico, il visionario, il desiderio, l’esperienza. La bicicletta nera senza manubrio, senza sella e senza pedali non è utilizzabile, non può portare. Nella semplicità della maschera e nella sue masse si scorge un memento mori, un memento homo. La scena acquista così una profondità esistenziale, a tratti conturbante, ipnotizzante, stregante. Tutto è cifra del mondo inesauribile dell’anima, non è la mera rappresentazione degli oggetti, di cose, come nella prima tela.  Qui la persona rivendica, apre, accenna ad una complessità finora nuova e inaudita, invisibile. Ora ci sono nuovi suoni e nuove figure per chi guarda. È una mitobiografica narratologia dell’esistere. Sul fondo, una porta aperta ( o una finestra?). Per attraversarla si deve passare interamente la persona, il suo mondo infinito. Le figure non sbarrano il cammino, ma lo preparano di necessità. Sembrano essere il sigillo per la porta che guarda sul fondo scuro. Qui nessuna luce geometrica può cogliere l’essenza oltre quel varco. Il mondo mitobiografico vissuto e attraversato fino in fondo è la sola premessa e promessa per quell’oltre. Il varco è segno e presenza di un’apertura alla stanza dell’umano.

Tela destra

La luminosità è ritratta. Questo è il luogo della luce, non del mondo illuminato. Tutto è scuro, è l’intimo più estremo. Qui sono l’origine e l’orizzonte infinito nel medesimo; fondo fondante e sfondante. Supporto e sottrazione insieme. Nessun oggetto, nessuna traccia; né è possibile che ci siano. Le tracce segnano un cammino, abitano la periferia. Qui è centro mistico, pienezza e vuoto. La tavolozza preferisce i bruni e i toni scuri. Il colore partecipa di uno stato, è funzionale all’idea. Qui regna il silenzio. Nessun oggetto si dà per chi guarda. Nessun ob-jectum, niente è gettato davanti. Qui è perso il metro, persa la dimensione, persa la distanza, perso il rapporto. Si è. Si è in. Nessuna prospettiva, nessuna profondità stimabile.  Eppure il luogo impone il suo esserci, il suo essere presenza. Non è ou-topia. Qui ha legittima residenza lo spirito che abita quel fondo senza fondo dell’anima già annunciato oltre quel varco nella tela centrale. Una figura, una velatura è soffiata verticalmente. Puro pneuma, soffio vitale e vivificante. Libero e liberante. Come siamo lontani dalle definizioni della materia e delle figure delle prime due tele. Respiro. Pneuma quintessenziale che si annuncia e preannuncia già a partire dalla prima tela, poi in modo più permeante nella mitobiografica tela centrale, infine nella sua pura essenzialità nell’ultimo terzo del trittico. Inoltre è chiara solo adesso un’altra diagonale, ascendente, alleggerente, che attraversa l’intera opera: dallo smuoversi magmatico dello pneuma dal basso, tela sinistra, al culmine del suo dispiegarsi e attraversarsi, tela destra. Moto pneumatico ascendente e ascensionale dello spirito che non può non far pensare alla vicinanza delle parole germaniche Geist (spirito) e Geyser, la sorgente ipogea che indica propriamente la forza prorompente dall’abisso.

Il trittico permette di scorgere schematicamente tre tappe, tre passaggi di un cammino. Focalizzante la centralità della persona, è questa un’unica opera, singolare-plurale, unitaria. È forma dell’idea, portando se stessa oltre se stessa.

      

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