di Pietro Liaci

La realtà osservata diviene cultura del reale quando il bagaglio storico e ideale accompagna il cammino umano, scandendo le ore del tempo fisico e metafisico. Perché ciò avvenga sono necessari gli oggetti costitutivi della rappresentazione del reale e i soggetti operanti in esso, i quali ipotizzano che la realtà in quanto tale è degna di essere osservata, allorquando la vibrazione vitalistica che domina i sensi della percezione tende ad armonizzare con tali oggetti.

Da questo rapporto prendono corpo gran parte delle scelte estetiche e comportamentali, che sono traducibili in forma artistica e, quindi, in linguaggio visivo.  Ed è quasi una risposta soggettiva e poetica alla realtà che si è voluto assumere e/o trascendere col fare, di cui la tékhnè è il mezzo propiziatorio che permette di agire nella realtà stessa e in ogni sua microparticella, in ogni fisica delicatezza derivante dall’aspetto logico dello status corporeo.

Nel caso in esame, è nel rigore formale che tale statuto (il canone e le sue leggi) consuma gran parte delle sue energie, e, nel medesimo tempo, si apre alla finzione, alla polverizzazione, al paradosso della bellezza che si espande nel sogno, come evocazione  di sentimenti che si contrappongono sinergicamente alle atmosfere neoromantiche, impolverate qua e la da un virtuosismo soft,  preraffaellita, e da una lirica accentuazione tonale : crepuscolare.

E’ in questo contesto che si può collocare a mio avviso la icàstica ricerca grafico-pittorica della giovane Francesca Mele di cui le opere degli ultimi quattro anni di lavoro paziente costituiscono un corpus organico suscettibile e aperto a diverse soluzioni.

Ricca di immaginazione e i verve ironica Mele approda all’Arte scegliendo la tensione ora interna ora esterna della forma, facendola interagire nello spazio fisico, felicemente contrassegnato da inserti lineari con i quali ripropone un’immagine generale di gusto liberty e in quello onirico dove fantastiche architetture, sapientemente combinale  a presenze simboliche s’impongono quali segni stratificati della memoria culturale dell’artista salentina, che così intende manifestare il suo percorso, il suo viaggio nello scenario dell’immaginario e scandito dall’ora del presente. Benché i suoi lavori parlino del presente va detto però che, nella tensione espressiva delle trasparenze e dell’uso complesso della luce, la materia, in alcuni testi  visivi, sembra offrire il passo a ciò ch’è inafferrabile, indistinto e leggero per meglio permettere a quel diffuso e sottile sensualismo che tutto pervade, di divenire eco: 

magico suono che si propaga nello spazio infinito, che ritorna essere che lo ha provocato per placarsi. Sicché, la valenza linguistica iconografica che si riconosce alle opere di Francesca Mele deriva dalla sua passione per la qualità dell’immagine fotografica e dagli studi attenti sul cartellonismo pubblicitario, nonché da un talento

espressivo ordinato e rigoroso che, alla fine, le permettono di costruire agevolmente, con tecniche, miste intrecci figurali raffinati, quasi sempre messi  in rapporto ad elementi vegetali e frammenti intatti di antiche architetture.

Immagini disegnate, colte nel momento della loro fragilità interiore; tuttavia contemplabili come termini forti di una bellezza (classica?) specchiata   sull’onda dello sguardo libidico di Narciso e del battito d’ali del cigno (Zeus), sul cui dorso giace la mitica Leda.

Non a caso nell’opera di Francesca Mele l’ordine delle cose appare regolato dal desiderio non alienato della bellezza, volutamente colta dalla dimensione umana , ma anche da un’idea secondo cui la realtà è altra da sé : ossia metafora, allegoria della vita, racconto simbolico.

Ciò le consente di scandagliare il territorio dell’inconscio, dalla cui esperienza la coscienza emerge più rafforzata. Mentre il tono ludico si fa sempre più impercettibile poiché è tutto giocato sulle presenze   e sulle probabili differenze ; sulla voluttà armoniosa dei corpi anatomici espressi nella loro tenera e astratta evanescenza, espressivi comunque di una versione umana della purezza e dell’ansia per una vita ancora degna di essere vissuta e sostenuta dalla speranza.    Orbene, la bravura tecnica del procedere  pittorico diviene, quindi, il medium con cui l’artista rende visibile alla coscienza il proprio mondo interiore; quasi un’autoanalisi compiacente che, a volte, è anche critica del proprio lavoro. Gli strumenti culturali di cui essa è in possesso spingono il proprio lavoro artistico in varie direzioni, e ciò fa si che il procedere appaia vivo e stimolante, in quanto determinato da una vis creativa  capace di provocare sul piano ottico sensazioni ed emozioni all’interno di una linea figurativa che pare fondi la specifica connotazione espressiva sulla confluenza del mondo immaginario in quello della rappresentazione del reale, al di là in ogni caso, dei conflitti e dei segni della crisi della società odierna.

novembre 1990, testo in occasione della personale di pittura al Circolo Professionisti di Novoli

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