di Vincenzo Abati

Onestà artistica e immediatezza comunicativa sono le tematiche di fondo della sintesi pittorica di Francesca Mele: la prima simboleggiata dalla bellezza femminile condotta al massimo grado di idealizzazione; la seconda, garantita dalla sapiente forza del colore.

Sullo sfondo di quest’arte, si illumina l’accensione lirica della Bellezza incorniciata in una spazialità barocca, impreziosita da una cromia di ispirazione neoclassica.

Come su una superficie di un arazzo, il mito del Bello si dispiega, con lentezza sacrale, per farsi traccia tangibile di una argomentazione profondamente onirica.

La concezione scenografica dello spazio, esaltata dalla sensibilità barocca, trova la sua apoteosi in quella luminosità epidermica che traspare invitante dai corpi delicatamente eburnei e atteggiati in espressioni eroiche e sensuali.

Va sottolineato però che tale carattere epidermico non è dettato da motivazioni estetiche di gusto canoviano, tutt’altro!

La pittrice approfitta della memoria ma lascia campo libero all’immaginazione, istituisce l’enigma eterno del Bello ma non ci aiuta a scioglierlo, suscita emozioni e poi le ridimensiona in un mosaico figurativo di vera suggestione.

Sull’epidermide l’artista crea un’immagine carica di valenze simboliche dando luogo a suggestioni di stampo cinematografico e di forte effetto; così sulla superficie immacolata della tela, come un grande schermo, simultaneamente affiorano volti da favola, arabeschi barocchi, nature morte e giacigli di fiori, inaugurando un singolare sincretismo che ha per obiettivo finale il conseguimento dell’Armonia e la seduzione di una “pittura innamorata”.

L’immagine nasce dall’immagine, quasi per gemmazione, racchiusa in una cornice onirica; e il sogno per Mele si identifica, in ultima analisi, con la pittura, con il piacere mondano e al tempo stesso divino di far nascere l’immagine ridandole vita attraverso “un pennello che non descrive ma evoca, che non presenta ma presenzia, che non commenta ma determina” (Vivaldi).

E non importa se l’archeologia della bellezza è solo una passione dello spirito il cui oggetto sfugge sempre come la ninfa al dio, come l’Io a se stesso, ciò che conta per Mele è l’evasione in un mondo edenico dove l’anima dimentica per farsi bella, dove il trauma umano si dissolve nel Nirvana del mistero.

Scriveva David Friedrich: “Devo diventare una sola cosa con le mie nuvole e i miei fiori per poter essere quello che sono”. Non credo che Francesca Mele, nella sua coerenza sentimentale, si discosti troppo dal pensiero del pittore tedesco.

docente di storia dell’Arte Accademia di Belle Arti di Lecce

tratto da LiberaArs, 28 febbraio 1996

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