Giovanni Invitto

E’,  nelle opere di Francesca Mele, un limite alto che le segna ed è pervicace ricerca strumentale dell’armonia che riempie foglio o tela come richiamo intrigante per entrare nel vissuto dell’artista.

Tra decorazione ed espressione , Francesca vive intensamente i due poli culturali della sua terra, confusi e reimpastati nel mito : barocco e liberty. Due anime accomunate dalla definizione del dettaglio, dalla levigatezza delle superfici e della pelle. Ancora una volta l’Horror vacui barocco si esorcizza con una progressiva, silenziosa invadenza(quasi schiuma di mare) nello spazio bianco con volti, capitelli, fiori, arbusti, soldati , corpi di donna. Ma barocco è soprattutto bellezza nata nel caos : un caos che, anche per la scienza di oggi, non è sinonimo di irrazionale, casuale, irrisolvibile,  ma indica la presenza di un “ ordine del disordine” (Omar Calabrese).

Ancora, come afferma Gilles Deleuze , il barocco non  rimanda a un’assenza, ma piuttosto ad una funzione, ad un tratto, non smette mai di fare pieghe. “ Questo fenomeno non è una sua invenzione: ci sono tutte le pieghe provenienti dall’oriente, le pieghe romane, romaniche , gotiche e classiche…, ma il barocco avvolge e riavvolge le pieghe, le spinge all’infinito, piega su piega, piega secondo piega. Il suo tratto distintivo è rappresentato dalla piega che si prolunga all’infinito”.

In questo senso il barocco diviene una linea di attraversamento e da attraversare per, eventualmente, andare oltre. L’oltre, per Francesca Mele, è anche lo spazio mentale del mito della leggenda, del quotidiano convertito nel mito che non rinunzia mai alla calligrafia delle cose.

E, poi, la melagrana, simbolo si fecondità e di fertilità femminile , di dolcezza sotto la scorza dura da frangere, per sorbirne il succo rosso, come voleva la simbologia barocca. Come avevano detto pure, millenni prima, i due amanti del Cantico dei cantici .   

Come nastro di porpora le tue labbra,

la tua bocca è soffusa di grazia

come spicchio di melagrana  la tua gota

attraverso il tuo velo.

Giardino chiuso tu sei , sorella mia, sposa,

giardino chiuso, fontana sigillata.

I  tuoi germogli sono un giardino di melagrane,

con i frutti più squisiti.

Nel giardino dei noci io sono sceso

Per veder il verdeggiare della valle,

per vedere se la vite metteva germogli,

se fiorivano i melograni.

Di buon mattino andremo alle vigne;

vedremo se mette gemme la vite,

se sbocciano i fiori,

se fioriscono i melograni;

là ti darò le mie carezze.

Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;

m’ insegneresti l’arte dell’amore.

Ti farei bere vino aromatico,

del succo del mio melograno.

Il riverbero floreale dà il  colore che la pietra di Santa Croce o del Duomo idruntino non ha e che rende tattile il  disegno. L’abbandono a una mano che traccia l’universo sperato, che è  universo di fiaba, come le fiabe illustrate da Francesca nella sua giovinezza, è , da una parte, passivo accoglimento di ciò che germina dentro, ma è anche tecnica di regolazione e controllo delle passioni. La decorazione non è lusso decadente, ma categoria che costituisce l’universo. Nell’esistenza schizofrenica nello spazio angusto del paese natale, paese del falò, appena diluito dalla parentesi emiliana, e lo spazio do Astolfo e Bradamante, di Angelica e Orlando, prevale quest’ultimo che risucchia e agglutina, passando dagli occhi, il mondo quotidiano, annullandolo. E Otranto può tornare mito, e paese senza luogo (u-topia), come nel romanzo di Roberto Cotroneo. Idrusa, forse, è la donna che confonde le sue braccia con le ali di aquila e che ha il grembo saldamente legato con funi, nella speranza di eludere violazioni  . Ella non fa, della verginità, mito di esistenza, e del martirio mito di morte. Come nel romanzo di Maria Corti. So che è solo un’associazione estrinseca. Ma nei quadri di Francesca intravedo il ghigno sarcastico, con la vita e il Salento, di Vittorio Bodini, poeta di surrealismo e neobarocco essenziale. Melagrana, bambina, civetta, luna, leggenda.

Io avevo una pietra

E questa pietra aveva un orizzonte

E l’ orizzonte un desiderio

di spaccarsi, di fendersi

in melagrane,

in bianchi muri di calce

secondo un disegno che era

il disegno della mia morte.

(Io avevo una pietra)

La  luce è un’altra bestia sulle case

Da aggiungere al bestiario

La cui favola

Sa di sputi e minacce,

il greco, la tarantola,

l’aggressiva cicala,

la civetta.

(Bestiario salentino).

Le bimbe negli orti

Ad ogni grido aggiungono una foglia

Alla luna e al basilico.

(foglie  di tabacco, 5)

Biancamente dorato

È il cielo dove

Sui cornicioni corrono

Angeli dalle dolci mammelle,

guerrieri saraceni e asini dotti

con le ricche gorgiere.

Un frenetico gioco

Dell’anima che ha paura

Del tempo,

moltiplica figure,

si difende

da un cielo troppo chiaro.

(Lecce)

Solo echi , certo, e accostamenti improbabili. Ma i quadri di Francesca evocano, forse attraverso una mano inconsciamente guidata, il cielo da cui è stato partorito il suo mondo culturale.

Ecco perché quella fantasmagorica tracciata sulla tela non è solo decorazione, ma è racconto, narrazione all’interno di due bozzoli. Il primo è la clausura espressiva e linguistica che l’adolescente Francesca scelse per se quando sentì la fascinazione di Pietro Annigoni. Vi scavò dentro, esasperando rigore formale ma, anche, sollevandosi verso gli spazi rimasti vuoti dietro profili incredibili e sguardi che ci vedono. Il secondo bozzolo è l’altro universo “conclusus”,quello della donna come natura, come pacificazione, come forza che s’impone e che impone i suoi ritmi, i suoi pensieri, le sue fantasie mitologiche. Qui l’aristocrazia del volto determina un’egemonia linguistica che riporta la nostra memoria al più surreale Dalì, a quello che compone classicismo e realismo, in una sorta di iperrealismo magico che fa reali il mito, l’immaginale e l’immaginario. Universo non femminile, ma di donne, ognuna con una sua storia, con un suo amore, mentre lei gioca con la “vera” =”fede”, tra le dita. Ognuna con un suo sguardo, con sue lusinghe, con suoi voli, con sue ali, con capelli invadenti. Ma, forse, ognuna e tutte, come Narciso, alla ricerca di un’identità che vada oltre la bellezza. Decadentismo? Catturiamo un soffio dannunziano:

O Viviana May de Penuele,

gelida virgo preraffaellita,

o voi che compariste  un dì, vestita

 di fino argento, a Dante Gabriele,

tenendo un giglio ne le ceree dita.

(….)

non vidi allor la primavera iddia?

Disser la vostra lode a me li uccelli,

Fiori parvero nascer dà capelli,

come nella divina allegoria

cui spinse in terra Sandro Botticelli.

(Due Beatrici)

Il cuor nel petto è come pesca

Intatta.

Tra le palpebre gli occhi

Son come polle tra l’erbe ,

i denti negli alveoli

son come mandarle acerbe.

(la pioggia nel pineto)

Se altri echi risuonano in noi, sono di Dante Gabriele Rossetti e di Edward Burne Jones con la sua”scala d’oro”, da cui scendono donne coperte di veli. Ogni quadro per Francesca è giardino di quella scala aurea, in una contemplazione solo apparentemente passiva (un itinerarium mentis- et cordis et corpis – in Deum, non tanto profano o profano non più della Venere del Botticelli e della Primavera dell’Angelico), in un metter fuori, secondo il mito platonico, dove démoni e dei invasano l’artista, lo occupano, lo fecondano e lo riempiono fino a farli vomitare, o partorire, l’opera, il figlio.

La facile suggestione che si prova davanti a quelle figure, quasi che siano pura secrezione stilistica, non maschera il racconto ancestrale, il progettarsi come passato, come leggenda, appunto, e favola e mito. Tutto ciò è frutto di un denso ri-piegamento in se stessi e di una ricerca espressiva che ha già maturato l’accento personale. L’infanzia ritorna, non come memoria personale. Francesca ha scritto di sé: il dissolvimento delle figure e lo sconvolgimento delle cose che ruotano attorno ad esse, nell’attimo in cui vengono ad esistere, si estendono oltre il sogno e la magia, fino alla scomparsa della loro fisicità, là dove gli spazi hanno in sospensione fantasmi che altro non sono che il frutto di “quell’altro universo concluso” che non è quasi mai scenario della memoria.

L’autore non è mai il migliore interprete delle proprie opere che hanno un senso autonomo,  come i figli dalla genitrice, una volta reciso il cordono ombelicale. D’altro canto, l’opera non si spiega, e il quadro riuscito “ha lo strano potere di insegnarsi da sé” (Maurice Merleau-Ponty). Però, la scrittura sensibile di Francesca merita attenzione se non altro come approccio discorsivo di pacificazione con la confusione della sua anima e il suo status conoscitivo si contrappone al suo permanente, privilegiato rapporto con la follia”.

Sempre Merleau-Ponty, il filosofo che ha pensato Cézanne e Paul Klee, Matisse e Giacometti, ci ha insegnato che la più alta ragione confina con la déraison, l’assenza di ragione.

Non guardiamo il quadro: ed è un oggetto-altro con cui entriamo in fruizione vissuta. Il quadro è per l’artista lo specchio, il lacaniano “specchio come formatore della funzione dell’io”. Ma lo specchio, l’acqua che riflette come specchio, è anche nascita e morte di Narciso. Già a lui il cieco Tiresia aveva preconizzato che sarebbe vissuto a lungo solo “si se non noverit”, purché non si fosse guardato, non si fosse conosciuto. “codesta che vedi è ombra di immagine riflessa./non ha consistenza in sé; con te giunge e perdura,/con te se ne andrà, ammesso che tu possa staccartene”. Ma il corpo di Narciso “non si trovava in nessun luogo ; al posto del corpo, scoprono un fiore giallo/nel mezzo, circondato da candide corolle” (Ovidio, Metamorfosi).

Il pittore-Narciso riprende l’infanzia, che diviene momento centrale del quadro. Però, non è la sua personale infanzia, perché-è sempre Merleau-Ponty a ricordarlo-la tradizione è oblio delle origini. L’infanzia è caverna-archetipo dove le mani di bambina covano maternamente un nido.

Mani di bambina e di donna che inseguono farfalle, che sono guardate, che si poggiano sulla fronte nell’abbandono del corpo, chiuse a pugno sul volto assonnato, che premono la guancia e le tempie prima dell’urlo, che scostano e trattengono i capelli, che danno slancio al ventre proteso verso il cielo notturno. Quel cielo, dice Francesca, “non è solo naturale alloggio della luna, ma fondale di racconti straordinari, dove figure aleggiano fuori dal tempo, in perenne precario equilibrio sugli enigmi dell’esistenza”. E accanto al corpo, appena velato, di donna, è la civetta, non rapace ma custode.

Potremmo trovare in ogni sua opera tanti simboli, frutto più che di meditazione riflessa, di espressione onirica, spontanea, automatica, immediata, non controllabile come non sono controllabili il parto, la secrezione delle lumache e dei ragni. Ma ogni tanto squarcia la tela l’iperrealismo che si impone, come flashback abbacinante, sulla mano della pittrice, intenta a nuovi sentieri espressionistici, senza sapere se così sarà il suo mondo di domani o se saranno solo sentieri interrotti. Intanto si sovrappongono trasparenze e dissolvenze, strati di un’icona incompiuta, come incompiuti sono ogni quadro, la vita di ogni pittore, la storia di tutta la pittura.

Perché ogni quadro di Francesca Mele, come ogni quadro di ogni pittore-osserva ancora il filosofo del senso e non-senso –  è sempre il primo quadro. L’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa di diverso da un grido.

Giovanni Invitto

Università di Lecce, Primavera 1998    

(Il testo introduttivo al catalogo realizzato per la mostra “Le lune del Barocco” tenutasi a Lecce, Castello Carlo V, 1998

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